Galileo Galilei e Giovanni Francesco Sagredo: le burle ai Gesuiti, le notti brave in villa in Riviera del Brenta e il gesto dell’ombrello ai barcaroli. Quando storia e curiosità si mischiano, tra testimonianze e leggende…
Era il 24 agosto del 1609 quando il pisano Galileo Galilei presentò al doge Leonardo Donà il suo cannocchiale, sostenendone l’importanza a scopi bellici. Per quanto in molti lo credano ancora oggi, il “cannocchiale” non fu una sua invenzione, ma egli seppe sfruttarla a proprio vantaggio.
Il 31 agosto di quello stesso anno lo storico padovano Lorenzo Pignoria scrisse infatti al prete, letterato e amico dello stesso Galilei, che “il signor Galileo ha buscato 1.000 fiorini in vita, col beneficio di un cannocchiale”.
Anche in questo caso ci sarà lo zampino di un amico di Galilei: Giovanni Francesco Sagredo.
E’ da qui che inizia la storia.
COME TI “RUBO” IL CANNOCCHIALE
Wesel, Germania occidentale. Il 25 settembre del 1600 l’occhialaio Hans Lippershey – che sarà poi naturalizzato olandese – offre un rudimentale cannocchiale allo Statolder Maurizio d’Orange, luogotenente civile del sovrano d’Olanda. Dopo appena tre settimane anche tal Jacopo Adriaanson annuncia agli Stati Generali d’Olanda di averne costruito un altro. La notizia ben presto si diffonde valicando i confini e raggiungendo la Francia, tanto che nel mese di aprile del 1601 alcuni di questi rudimentali strumenti si possono già acquistare sulle bancarelle dei mercati parigini.
Il polesano Girolamo Magagnati si specializza nella fabbricazione di vetro (prima in Roma e poi a Venezia). Il veneziano Giovanni Francesco Sagredo è invece un nobile veneziano, filosofo ma costruttore di strumenti e anch’egli conoscitore della lavorazione del vetro: Galilei lo conosce al circolo intellettuale “ridotto Morosini” di Venezia e gli impartisce lezioni private. E’ così che nel 1602 Galileo Galilei si affida alla loro esperienza per la costruzione di vetri speciali, in quanto da diverso tempo è interessato alla rifrazione e allo studio dell’assetto cosmico.
Galileo Galilei è oppresso dai debiti e alla ricerca di denaro, così ritiene che da questo cannocchiale da lui assemblato “non tralasciando spese né fatica”, si possa ottenerne un guadagno. Grazie a queste lenti gli oggetti appaiono “trenta volte più vicini” rispetto al naturale e pertanto l’interesse ai fini militari può far gola alla Serenissima. Il 21 agosto una delegazione sale sul campanile di S. Marco per una dimostrazione. Il gruppo è composto tra l’altro dal procuratore di S. Marco Antonio Priuli (che sarà poi Doge dal 1618), l’ambasciatore Zaccaria Contarini, Lodovico Falier, Sebastiano Venier, Pietro Contarini, Lorenzo Soranzo, il dottor Ventura Cavalli e Zaccaria Sagredo (in quanto Giovanni Francesco in quel periodo è console ad Aleppo in Siria).
La dimostrazione riscuote un grandissimo successo, tanto che Antonio Priuli scrive: “Salimmo a vederl me meraviglie et effetti singolari del cannocchiale di detto Galileo che era di banda (latta) fodrato al di fuori di rassa (rascia, tessuto di lana grezza) gottonata gremisina di longhezza tre quarti (palmi) e mezzo incirca et larghezza di uno scudo con due veri uno cavo e l’altro no per pearte, con il quale posto a un occhio e serrando l’altro ciasche d’uno di noi vide distintamente oltre Lizza-Fusina e Marghera, anco Chioza (Chioggia), Treviso et sino Conegliano et il campanile et cubble (cupole) con la facciata della chiesa di Santa Giustina de Padoa (Padova); si discernivano quelli che entravano et uscivano di chiesa di San Giacomo di Muran, si vedevano le persone a montar e di smontar de gondola al tragheto alla colona del principio del Rio de’ Verieri, con molti altri particolari nella laguna et nella città veramente ammirabili”.
QUEL GALILEI HA FATTO UNA “COGLIONERIA”
Galilei ha fatto bingo. Il Senato lo conferma a vita professore a Padova e gli raddoppia lo stipendio con 98 voti favorevoli, 11 contrari e 30 astenuti.
Vero o non vero, le polemiche e le invidie iniziano a gonfiarsi. Lo scienziato napoletano Giovan Battista della Porta (che dell’abbinamento tra lente concava e convessa già scrisse nel 1589), il 28 agosto di quello stesso anno comunica all’Accademia dei Lincei e al suo fondatore Federico Cesi (nonché duca di Acquasparta): “del secreto dell’occhiale l’ho visto ed è una coglioneria”.
L’ambasciatore toscano Giovanni Bartoli scrive a Firenze: “vien stimato ora che egli li abbia burlati quando diede per secreto quel cannocchiale… egli ha cercato di fare il fatto suo et gli è riuscito”.
TRA BISOGNO DI SOLDI ED ESUBERANZE
Per capire chi fosse Galileo Galilei, ci viene incontro Antonio Banfi. “Se v’è un tratto, invero, che esprime l’immediata radicale natura di Galileo, esso è la sua intensa vitalità, la ricchezza cioè dei suoi fermenti interiori e la forza esuberante d’espansione e d’attività che travolge in una potente reazione ogni evento che le si opponga. La robustezza fisica trionfante d’ogni fatica, la sensualità violenta e sana, senza morbidezza, la tempra salda vivace e gioconda, disposta al lavoro inflessibile e tenace, come al piacere abbandonato e al riso, sono gli aspetti immediati di questa esuberante vitalità”.
In questo suo ritratto, per quanto parziale o enfatizzato, la figura di Giovanni Francesco Sagredo trova giusto sposalizio.
Ottenuta la cattedra di geometria e astronomia all’Università di Padova nel 1592 (dove rimarrà fino al 1610), Galilei deve fare continuamente i conti con problemi finanziari e creditori che lo inseguono.
Amante della buona tavola, ma non solo: “furbo, talora ingenuo, sprezzante e litigioso, debole e avido di successo; pagherà in salute il bere smodato e le necessità di denaro lo condurranno talvolta all’esosità”.
Una personalità intricata quindi, che però trova nel veneziano Sagredo un appiglio di amicizia.
VILLA SAGREDO, LA NOSTRA DIGNITA’ PER UNA CANDELA!
Nata come “Castrum romano” occupato da un’antica popolazione nomade indoeuropea chiamata dei “Sarmati”, Villa Sagredo a Vigonovo, in Riviera del Brenta, fu anche antico forte militare. Inizialmente la potente famiglia veneziana proprietaria dell’edificio era quella dei Gritti. Quando la Serenissima ne decise la demolizione per eliminare i resti monumentali della civiltà romana dal proprio territorio, i Gritti giocarono sul tempo e affidarono all’illustre architetto Jacopo Sansovino l’opera di ristrutturazione e trasformazione della stessa in una villa sontuosa.
Passata poi in mano alla famiglia di origine dalmata dei Sagredo, con Giovanni Francesco divenne luogo di villeggiatura per la stessa. Nel Seicento la Riviera del Brenta offriva ai nobili veneziani pace ma soprattutto portava le loro azioni al di fuori dall’occhio attento e inquisitore della Serensissima. Spesso le Ville della Riviera divenivano così luoghi per il gioco, feste, ricevimenti o per… incontri extraconiugali.
Galilei, che per cinque giorni alla settimana lavorava con seria professionalità in quel di Padova, nel fine settimana si recava a Villa Sagredo, sedendosi sempre su quel divano che venne chiamato “el sofà del siensiato” (scienziato), rilassandosi e facendosi portare delle ciabatte di morbida pelle color cuoio che ora sono andate perdute.
Tra allegre digressioni innaffiate da tazze ben piene di buon liquore fresco o vino generoso, Galilei si esibiva nel suono del liuto con grande maestria. Poco più che trentenne, una sera di luglio giunse a villa Sagredo un certo Pietro, conosciuto come il “poeta fallito” della Rivera. Sfruttando le sue altolocate conoscenze, era solito intrattenersi a pranzo o a cena e quella volta, alla presenza di Galilei, raccontò di due giovani dame che, in viaggio verso Trieste, erano alla ricerca di un luogo dove poter trascorrere la notte. Ovviamente i due acconsentirono e terminato il pasto il poeta se ne andò.
A mezzanotte giunse una carrozza dalla quale scesero due donne alte e slanciate, cinte da un corpetto che proseguiva fino a coprire il collo e col volto nascosto da una veletta nera ricamata.
Sagredo e Galilei, dopo un reverenziale baciamano, le invitarono ad accomodarsi in due stanze separate all’interno della villa, accompagnate dalla servitù. Poco dopo, complice il buio pesto, i due le raggiunsero per trascorrere una notte d’amore.
Solo al mattino, con la luce che finalmente illuminò il volto delle due misteriose dame, Galilei e Sagredo si accorsero che erano due attempate anziane, col volto scavato dalle rughe. Galilei si rivestì in fretta per tornare a Padova. Che smacco: colui che tra i primi osservò stelle lontane non seppe riconoscere l’anziana compagna di una notte!
Giovanni Francesco, anch’egli scosso, ordinò alla servitù di comprare decine e decine di candele che, da quel giorno in poi, avrebbero dovuto illuminare la villa in tutti i suoi angoli, anche di notte.
GIOVANNI FRANCESCO E GALILEO, I PRIMI “PENFRIEND”
Da amici nella vita reale ad amici di penna. Ebbene sì. In anticipo rispetto alla modernità fatta di corrispondenza in tempo reale via internet, quello tra Giovanni Francesco e Galileo fu un rapporto che proseguì anche tramite una fitta corrispondenza tra i due a cavallo tra il 1599 e il 1619. Un’amicizia e una confidenza tali che portarono Galilei a rendere il Sagredo uno dei protagonisti del suo libro “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”.
Giovanni Francesco, figlio dello stimato patrizio Nicolò e di una Tiepolo, diventa un “idolo” per Galileo: confidente e informatore per le questioni più delicate ma anche compagno divertente e ammonitore. Quando Galilei farà ritorno a Firenze, Sagredo gli prometterà di scrivergli ogni settimana “perché ad ogni giorno io scopro essere in questo mondo tanto grande la carestia di uomini, che non mi pare perduta la fatica non dirò di scrivere, ma quasi di camminare da Venezia a Firenze per abboccarsi con uno che meriti veramente nome di uomo”.
Di sette anni più giovane di Galilei, Sagredo si definisce “gentiluomo veneziano, né spesi mai nome di letterato; portai ben affetto e tenni sempre la protezione dei letterati, né intendo avvantaggiar le mie fortune, acquistarmi lodi e reputazione dalla fama della intelligenza della filosofia e matematica, ma piuttosto dalla integrità e buona amministrazione de’ magistrati, e nel Governo della Repubblica […]. Spendo il mio tempo in servire a Dio e alla patria, ed essendo libero dalle cure familiari, ne consumo buona parte nella conversazione, servizio e soddisfazione degli amici e tutto il resto le dedico alla comodità e gusti miei”.
Iracondo nelle sue reazioni, soprattutto quando gli si faceva notare la sua propensione al bere e alla compagnia femminile, il Sagredo era uno dei pochi a potersi permettere di riprendere l’amico Galileo: “sebbene V.S. è savia e prudente, tuttavia, mi perdoni, se ha tanti disordini in pregiudizio della sua sanità, come potrei annoverarglieli e biasimarglieli senza che ella se ne risentisse?”. Tormentato anche dai dolori dovuti alle notti trascorse al freddo a seguire le sue osservazioni notturne, quando Sagredo lo invitò a farsi curare dai fanghi della vicina Abano, Galilei rispose spazientito: “Quando o per l’età o per li disordini, si perdono certi benefizi della natura, non può il medico provvedervi con l’arte”.
Un rapporto di profonda amicizia, non senza conflitti o chiarimenti, che s’interromperà nel marzo del 1620, quando la morte di Giovanni Francesco arriverà durante la scrittura del Saggiatore. Un lutto che lo colpirà particolarmente.
IL GALILEI CHE SI BURLA DEI GESUITI
Sotto le mentite spoglie di una nobildonna ricca e vedova, i due scrivono una serie di lettere pie ai Gesuiti ferraresi, nelle quali sollecitano risposte a dubbi, scrupoli e soprattutto consigli su come fare testamento.
Ovviamente, allettati da quest’ultima cosa, i reverendi padri ci cascano e per ben quattro mesi rispondono puntualmente.
Il gioco viene ripetuto con una lettera “circolare” firmata dallo stesso Sagredo e inviata a quanti si piccano di conoscere la matematica. Chiedendo umilmente lumi su un’equazione-tranello, li inducono a fare grossolani errori e a misurare le rispettive abilità nel calcolo.
Non è forse poi così casuale la “simpatia” tra Venezia e Galilei, entrambi in “conflitto” con la Chiesa. Un episodio curioso riguarda proprio il doge Leonardo Donà (quello a cui Galilei presentò il cannocchiale): ancora nelle vesti di Procuratore, poco prima dell’elezione a doge, ebbe un battibecco assurto a leggenda con il cardinale Camillo Borghese (il futuro papa Paolo V). “Se fossi papa scomunicherei i veneziani”, gli disse il cardinale. Donà rispose: “Se fossi doge, riderei della scomunica”.
LAVORATORIII?! PRRR!
In anticipo secolare sulla scena felliniana del film I Vitelloni, nelle sue visite a Venezia, Galilei oltre al Sagredo spesso frequentava altri due buontemponi come il Magagnati (quello del cannocchiale) e lo scrittore marchigiano Traiano Boccalini. Proprio lo scrittore raccontò che “da un casino sopra il Canal Grande” erano soliti bere “spesso tazze ben piene di buon liquore freddo e spumante, anche per quei poveri barcaroli che vanno in su e in giù faticando e sudando sulle loro barche”. La combriccola, estasiata dall’inebriante leggerezza delle bevande, “salutava” così i barcaroli col poco nobile gesto della “carità”.
Quello che noi chiamiamo “dell’ombrello”.
VILLA SAGREDO E IL GIOCO DELL’ORACOLO
Nel 1667 Giovanni Sagredo, brillante diplomatico e fine letterato compose l’ “Arcadia in Brenta”, operetta definita da molti il “Decameroncino della Riviera”. L’ozio e la villeggiatura dei nobili si legavano a intrighi amorosi. Per ovviare ad ogni imbarazzo si inventavano addirittura indovinelli, enigmi e questioni da risolvere sottoforma di giochi come quello denominato “dell’oracolo” che il Sagredo tramandò. Sotto ad una figura di Apollo si scrivevano domande in versi come questa:
Prima che di moglie porti periglio
Dall’oracolo prendi il buon consiglio.
Si proseguiva con un cavaliere travestito da oracolo che definiva la moglie:
se bella – pericolo;
se deforme – tormento;
se ricca – insolente;
se povera – mendica;
se dotta – comanderà;
se ignorante – consumerà;
se giovane – dispendio;
se vecchia – impedimento.
Concludeva con il consiglio di cercare moglie “piccola” perché tra i mille mali si deve sempre scegliere i “minori”.
Le donne, naturalmente, prendevano subito la rivincita e al proprio oracolo facevano con questi toni al dilemma di prendere marito:
se giovane – vagabondo;
se di mezza età – geloso;
se vecchio – impotente;
se bello – di altre;
se brutto – schifoso;
se dotto – impertinente;
se ignorante – intrattabile;
se ricco – avaro;
se povero – affamato;
se iracondo – tiranno.
Concludevano con la beffarda sentenza: “La donna che vuol marito, ed aver pace seco, lo prenda muto e cieco”.
Alberto Sanavia
BIBLIOGRAFIA:
-Banfi Antonio, “Vita di Galileo Gallilei”, Feltrinelli 1979
-Bressanin Silvano, “Il romanzo della Riviera del Brenta”, Il Prato casa editrice, 2008
-Distefano Giovanni, “Atlante storico della Serenissima”, Supernova Edizioni, 2010
-Mazzetto Diego, “Racconti, leggende e curiosità della Riviera del Brenta”, Corbo e Fiore Editore, 2000
-Scandaletti Paolo, Galileo privato, Gaspari Editore, 1989
-www.villasagredo.it
IMMAGINI:
– https://images.app.goo.gl/utkEqc2qo9qCcH7y6
– https://images.app.goo.gl/iDcYxKAP1Zyzz9839
– https://images.app.goo.gl/7igQNKTeq3yAdZWX9
– https://images.app.goo.gl/KRH6RHYQwXM2S6279
– https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Francesco_Sagredo#/media/File:Giovanni_Francesco_Sagredo.jpg
-La foto di Villa Sagredo è stata realizzata da Alberto Sanavia
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