E’ una fredda sera del 4 gennaio 1726. Prossimi alla notte, a cavallo col giorno successivo. In questo periodo dell’anno, un velo di nebbia aggiunge a Venezia un senso d’immobilità e smarrimento. Per capire l’atmosfera in cui siamo immersi, si possono utilizzare le parole del D’Annunzio, anche se di quasi due secoli successivi a questa serata:
“Mastichiamo la nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza far rumore, fasciati di caligine.
I canali fumigano.
Dei ponti non si vede se non l’orlo di pietra bianca per ciascun gradino”.
Proprio all’altezza d’uno di questi ponti, in corrispondenza di Campo San Martin nel sestiere di Castello, s’ode improvvisamente un colpo sordo d’archibugio, che qui in Veneto chiamiamo più semplicemente “schioppo”. Anzi, “s-ciopo”.
A cadere a terra è Gaetano Marasso, ora conosciuto col nome di Rinaldo Sora.
Un urlo strozzato in gola, dei passi veloci che si dileguano tra le calli e l’umidità ad ovattare i suoni in un’unica tonalità. Opaca, umida.
«Conte Altan, mi hai assassinato!». Rinaldo sfrutta gli ultimi momenti di lucidità prima di essere portato in casa da un soccorritore di passaggio. Giusto il tempo dell’estrema unzione, poi Rinaldo muore.
Scattano immediate le ricerche ma anche le domande.
Che collegamento può esserci tra l’assassino e Rinaldo Sora, un brav’uomo sposo della non bellissima –ammettiamolo – Antonia Sora?
Il Conte Altan si chiama Domenico, originario di San Vito del Friuli ma già noto alla Serenissima. Circa un anno e mezzo prima di questa notte, esattamente il 17 agosto 1725, il Magistrato della Bestemmia lo condanna come baro di carte ad essere chiuso in un “camerotto” per 20 anni, pubblicando un bando che viene affisso in tutta la città.
Domenico Altan è una sorta di antesignano del neonato Giacomo Casanova. Ma sicuramente meno furbo. In prima giovinezza Altan conosce Antonia Sora, alla quale si lega per due motivi: la passione tra le lenzuola e la famiglia dotata di discrete ricchezze. Si amano follemente in quel del castello di Salvarollo nelle campagne di San Vito ma, quando arriva il momento di chiederla in sposa allo zio (dato che il padre era mancato), egli si oppone fermamente. Il motivo? L’Altan non è ricco ma, soprattutto, non gode di buona nomea.
Ed ecco che spunta il Gaetano Marasso, “prescelto” dallo zio di Antonia che lo costringe a cambiare il nome in Rinaldo Sora. Tale decisione però non è sufficiente ad interrompere il rapporto tra la fanciulla e Domenico Altan che, in gran segreto, prosegue i suoi incontri amorosi con Antonia. La giovane donna rimane incinta.
Ovviamente non si saprà mai chi sarà il vero padre.
A quasi tre mesi dal delitto (il 1° aprile 1726) il Consiglio dei Dieci condanna Domenico Altan alla ghigliottina ma il “conte” decide di sparire dalla circolazione. La sua predisposizione per la carne lo porta però a far ritorno sotto mentite spoglie a Venezia, trovando alloggio nella casa di Giulia Foscari, con la quale certamente non si diletta nel gioco delle carte…
Una sera il Domenico si ferma in osteria a bere al fianco di Francesco Calegari, avanti con l’età ma scaltrissima spia che, ovviamente, non fa trascorrere la notte per andare a raccontare l’incontro. Riscuotendo così un consistente premio per la soffiata.
Il mattino successivo, nonostante il tentativo di camuffamento dell’Altan, il Messer grande della Serenissima Bastiano Bonapace, accompagnato da due guardie, lo scova a San Geminiano trascinandolo in prigione.
Frugando tra i suoi abiti, vengono trovate due pistole e molto altro ancora, anche se l’Altan s’altera soprattutto per la sottrazione di due pacchi di carte e di una cinquantina di lettere amorose.
Il 5 novembre del 1726, pur di non essere umiliato nella pubblica piazza, Domenico chiede di poter essere giustiziato con un colpo d’archibugio. Favore che la Serenissima, ovviamente, non concede.
Nel tratto verso il palco in cui lo attende il boia, Altan incrocia un gruppo di giovani fanciulle alle quali grida: «Benedette donne, che per causa vostra sono ridotto a questo passo!». Immediata la reazione del frate francescano che lo accompagna nel cammino, che lo intima a redimersi pensando a salvare la propria anima. «Padre», gli risponde, «dell’anima ho già disposto. Lasci in grazia che mi sfoghi col mondo».
Giunto sul palco vestito di tutto punto e con la parrucca addosso, Domenico osserva la folla davanti ai suoi occhi pronunciando le ultime parole: «Popolo, addio».
La povera Antonia si trovò così senza un marito, un amante e con un figlio al quale, per tutta la vita, cercò negli occhi la scintilla di due amori perduti.
Alberto Sanavia
Bibliografia:
– “Vecchie storie veneziane”, Diego Mazzetto, Corbo e Fiori Editore (Venezia)
– “Curiosità veneziane”, Giuseppe Tassini, Filippi Editore (Venezia)
– “Venezia immaginifica”, Filippo Caburlotto, Editrice Elzeviro (Treviso)
– “I banditi della Repubblica Veneta”, Pompeo Molmenti, II edizione, R. Bemporad & Figlio (Firenze)
– http://www.historiaetius.eu
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