“Una vita in vacanza” per uscire da un mondo self-made sempre più virtuale in cui siamo abituati a prenderci tutti troppo sul serio
Se vuoi camminare a Sanremo (la città) durante i giorni di Sanremo (il Festival) è necessario farlo qui, sulla strada che costeggia il lungomare. Per osservare tutto da lontano, pur essendoci in mezzo. E’ come se d’inverno i ruoli s’invertissero: le persone che prima correvano per accaparrarsi un ombrellone sulla battigia, adesso sgomitano per cercare un selfie sfuocato con lo sfondo dell’Ariston. In questo luogo, in questi giorni, basta accendere una videocamera amatoriale per illudere chiunque che si rivedrà in televisione. Sai te: “magari sulla Rai…”. Sì, la Rai. Quella “mamma” che tra le vie e viuzze del centro è una sorta di atea e intangibile figura di riferimento per un popolo che – a prescindere dall’età – si è app-socializzata annullando il confine tra idolo e fan, perché il secondo può divenire il primo se è un web influencer con molti follower (ossia “seguaci”, quasi a rimarcare il divino potere che affidiamo all’etere).
La realtà è più semplice, perché ruota attorno ad un Teatro che è forse la massima espressione delle Cattedrali dello spettacolo. Circondato da polizia e carabinieri da ogni lato, nell’epoca dell’abbattimento di tante barriere morali ha invece rinforzato quelle fisiche, allargando i propri confini, inserendo metal detector e gate di sicurezza a cui ormai non facciamo più caso. Se qui vuoi lavorare necessiti di pass per ogni cosa. Il pass per accedere alla sala stampa, il pass per il contenitore d’eventi chiamato Casa Sanremo, il pass per votare le canzoni che dovranno passare. E si passa tra i passaggi ostruiti da auto incolonnate e gente comune che trova il suo minuto di notorietà cantando il karaoke per strada. Osservi il banco della nutrita sala stampa su cui riposano chilogrammi di carta bianca, già destinata al macero. Ti muovi tra i corridoi affollati, sgomiti per ricavare un fazzoletto di spazio solo per appoggiare il tuo computer e poter semplicemente scrivere.
Poi arriva finalmente il momento in cui ti siedi, ascolti varie canzoni di cui molte uguali al passato e finalmente pensi che loro hanno capito tutto. Lo Stato Sociale ha sapientemente mixato i nostri problemi, le nostre corse quotidiane, le nostre aspirazioni più o meno velleitarie fotografando noi stessi con irriverenza ed ironia, quella che spesso manca in un mondo self-made sempre più virtuale in cui siamo abituati a prenderci tutti troppo sul serio. Non sarà la canzone artisticamente più bella, ma almeno è la più vera.
Alberto Sanavia
Foto di Maria Elena Schiavon (c)